Toni Zarpellon: sofferta evoluzione creativa

Ars vincit omnia. Volutamente ho cambiato il soggetto da amore ad arte. Con Zarpellon l’assioma è simbiotico: nulla di più inscindibile per il Bassanese: fare arte e vivere. E non è stato un percorso facile. Mi rivelò che dedica intere giornate per raggiungere quelle soluzioni a volte apparentemente scontate, ma così tormentate che solo un continuum di ricerca e un lavoro di sperimentazione possono produrre. Il sasso della Senna nobilitato ad opera d’arte attraverso il recupero di Picasso, le proiezioni lineari di Mondrian come condensato del paesaggio, il piscio di Warhol per acidificare la serigrafia sulla quale campeggia l’amoroso Basquiat, l’elemento fisiologico inscatolato da Manzoni sono forse le provocazioni eclatanti per confutare la funzione sociale dell’arte e decretarne la morte.

Nietzsche, alla fine del XIX secolo, annunciava la morte di Dio e con essa le virtù tradizionali. La gaia scienza inculcava i nuovi valori troppo umani e soggettivi; il neopositivismo partoriva la macchina e già si profilava il disagio psicologico. La morte delle arti figurative, che inneggiavano al bello raziocinante, apollineo, socraticamente demoniaco, maieutico si eclissavano con l’avanzare delle ovvietà fenomenologiche.

Parallelamente finivano pure le incentivazioni artistiche spontanee mosse dalle pulsioni istintuali. I moti della psiche e la malattia dell’animo hanno messo in luce le tematiche inusuali e forse anche imbarazzanti. E sul malessere esistenziale Toni Zarpellon ha posto le sue domande. Il segno d’interpunzione dell’interrogazione campeggia in molte opere.

Anche nei teoremi più evidenti cavalca il soggettivismo interrogativo e lascia la porta aperta per le soluzioni opinabili. Nella ridda degli assiomi che il groviglio mentale partorisce, la sollevazione dalla caduta e la rinascita sono lente. Dalla morte dello spirito e dell’arte, in una partenogenesi spontanea, si è autogenerata la vita: le larve dei fantasmi della mente si proiettano nell’opera per auto-affermare la rinascita.

E ritorna all’arte e all’artista stesso: Toni Zarpellon stilla il manifesto alla vita dopo la caduta all’inferno, dopo la “testa esplosa”, dopo la chiusura comunicativa con l’universale raziocinante. Le interrogazioni, i perché, l’ansia di dire e di proporsi, di attestare l’esistenza artistica, diventano per il Bassanese, prioritari motivi del vivere. In seguito ai mali nella danza con la morte, oramai l’arte gode della risalita. Purtroppo nella condizione umana il ruolo metafisico agostiniano determinato dalla originaria imperfezione,

biologicamente naturale per l’evoluzionismo e per la scienza che produce macchina e soffocamento indiretto dalla stessa, avanza la nuova mortificazione contemplata da Zarpellon.

La creatura rende succube il creatore, l’atto s’appropria della sua peculiare potenza ed il necessario diviene volitivo e voluttuario. Nella cava abitata, una sorta di quinta del sordo, in cui anime reali di macchina gridano al plenilunio, Zarpellon anima i suoi fantasmi. Nel neoanimismo teologico i serbatoi sventrati, totem del benessere, sono investiti di vita e nel contempo violentati da tagli in plurime fisiognomiche.

Dalla morte alla vita. Un flash, quel quanto basta per scoprire le verità condivise, la Sua certezza, dietro al velo di Maja direbbero gli esistenzialisti. Purtroppo retrostante al paravento c’è la sola verità vitale, legata comunque in simbiosi con il rapporto economico dell’interscambio sociale. Intuizioni amare per accomunare la macchina alla morte e la creatività a veicolo per voli pindarici della mente oltre l’immanente verso un neo-rinascimento ideale.

Le progettazioni vengono alla luce dai serbatoi forgiati a faccia, mutanti fisiognomiche dell’automezzo, ora deteriorate, nella giusta collocazione del paesaggio deturpato, tra lastre sfruttate di “rosso veronese”:

un palcoscenico fittizio sul quale si è recitato troppo la partitura del benessere. Ora dagli occhi dalle narici e dalle bocche delle carcasse fanno capolino al sole le lucertole, tra i chiaroscuri, con lo stesso squallore della miglior tradizione letteraria gotica.

Appollaiati nelle latomie sono rimasti i retaggi della cultura del consumo. Le macchine, per velocizzare a ritmo frenetico il corso degli eventi, sono state inadatte a rompere di netto con la tradizione del passato secondo l’intendimento futurista. Esse hanno impedito all’uomo di pensare standardizzando il cervello in un codice a barre. Zarpellon muore dentro invischiato dai miasmi dello sviluppo repentino e della massificazione; si rende conto che il singolo è desueto per i parametri dei media. L’artista è violentato, isolato, spogliato della sua unicità stirneriana.

Attorno ruotano le frustranti incentivazioni cicliche a consumare per produrre con il fine di consumare ancora.

L’effimero, l’ovvio, sono i feticci della reclame e sanciranno l’eclissi della ragione come scrisse Horkheimer. Naufrago del logoramento, Mell Ramos tributa all’arte il consumo: avvenenti donne dello spettacolo si mostrano provocanti accanto agli stick di caramelle, ai tubetti di dentifricio, alle pompe di “gasoline”, dentro ai cocktail “still life” con l’oliva.

Zarpellon invece soffoca; i vapori della benzina, le emissioni di ossido di carbonio e di piombo, cimiteri di auto, file ininterrotte di scatole colorate che sfrecciano, s’interrompono, s’intricano nel frenetico incedere quotidiano sodomizzano i neuroni, predispongono la letargia della mente.

La matassa arrugginita, come i cavi della gru, del “groviglio mentale”, produce indecisione nella scelta. Zarpellon è caparbio e critico; non si conforma al feticcio del consumismo e si chiude in sé. Come Lee Masters, non lungo il fiume Spoon, ma tra le rocce di Rubbio, custodisce il suo cimitero.

E’ proprio qui, dalle bocche squarciate, sofferte dei malconci resti del futurismo che doveva bruciare tutto del passato, fare igiene del mondo, e correre sulla macchina più di una Nike di Samotracia, nidificano vipere, passeri e lucertole,… Dagli orifizi sibilano, cinguettano, note di nuove rapsodie, frammiste

ai soggetti coniugati con il primigenio verbo della certezza: “esisto”. Con esso Toni Zarpellon si riappropria della facoltà di intelligere il noumeno.

L’oggetto sensibile si dipana tra le rupi dell’Altopiano: i bucaneve anticipano lo sbocciare delle primule, poi il tarassaco ordina a raggiera le foglie sul terreno seguito dal ciclamino … Il profumo si mescola al vago odore di stallatico degli armenti a crocchio sui declivi.

Nel godimento umano, troppo umano, la ciclicità della vita assiste alla schiusa delle uova e le larve ripopolano i biomi: le cellule cerebrali partoriscono concetti. Con sagace perizia tecnica intaglia, sega sagome sinuose, incolla su supporti rigidi, da tinte monocromatiche gli embrioni. Le larve, appunto, avanzano con la fierezza delle figure del quarto stato di Pelizza da Volpedo.

L’appropriazione della coscienza sociale collettiva resuscita dopo la crocifissione dell’ego da parte dei feticci dell’usa e getta. La coscienza per secoli incatenata da mistificatori profeti e da cicisbei vaniloquenti nei salotti di Longhi supera la sofferta condizione infelice hegeliana ed entra nella società. L’artista non è solo nel consorzio contingente.

Toni avverte la ri-nascita: una linfa emozionale che stimola il desiderio di fissare ciò che gli sta attorno e vive; ha sconfitto il nihilismo e la morte dell’ individualità. Ora, perlustrando il mondo, ritrae le folle di Monaco, dei campielli veneziani, della metropolitana milanese in ordinarie posture: a bere alla fontanella, a osservare l’iridescente sciacquio dell’onda attorno alla gondola …

Contro l’avvelenamento dalla banalità, il neo rinascimento di Zarpellon sfoggia il messaggio culturale. La zucca s’illumina. L’ Artista bassanese usa la metafora della zucca svuotata dai semi e rischiarata dalla candela per comparare la testa e il lume della ragione. Sfrutta il faceto contrappasso del consumo: l’oggetto fin troppo noto di Halloween diventa bandiera della testa raziocinante.

Qui s’inserisce l’attività di auto-indagine: cento teste, cento autoritratti per esplorare ciò che sta dietro al vello delle apparenze. Indi il succedersi delle cento teste di donna per coniugare il connubio maschio-femmina, il sé ed il suo imprescindibile completamento.

Zarpellon, disgiunto da retaggi vincolanti, s’immerge nella natura per un recupero degli spazi, rimpolpandoli di colore sulla tela e fruire del benefico interscambio vivifico. La cava dipinta è l’utero dal quale rigenera il desiderio di vivere artisticamente e di confrontarsi con gli altri. La moltitudine di frequentatori di Rubbio è incentivo vivendi.

Nella risultante, all’opposto del pensiero pessimista leopardiano la natura si presenta buona e datrice di ispirazione. Nella fisiocratica full immersion le mucche, maestose, grandi fattrici, rimandano al recupero dei ricordi dell’infanzia, bucolici nella piena estensione arcadica, quasi zonale nel timbro cromatico. Gli spazi s’allargano in sequenze a campo lungo, indi in panoramiche a perdita d’occhio. Il paesaggio stimola le sintesi poetiche e incentiva la speculazione filosofica sulla metafisica delle cose; sull’essere in quanto tale e datore di vita.

Il Bassanese è soggetto centrale per gestire una simbiotica relazione. Cogito ergo sum: il pensiero si fa ricerca d’identità ed il ritratto è veicolo per testimoniare la rinascita dell’ individualità critico-creativa. È en plain air che si ode il fruscio delle fronde, si estende l’aprico declivio erboso dell’Altopiano, si sente impercettibile il sussurro del vento tra le pietre e si assaporano gli odori delle spore del muschio…

Dalla prigione dell’io, dal carcere circoscritto della ragione, dall’angusto spazio dello studio, Zarpellon riprende un colloquio intimo con la natura.

È questo un duale rapporto di analisi, interpretazione, gratificazione, sollevazione e ripresa al fine di approdare alle sintesi di lettura e di composizione, quasi metafisica, espressionista negli urli esistenziali, che solamente l’arguzia, la sofferenza e l’esperienza del vero Artista possono cogliere.

Le sue diventano opere che scoprono un linguaggio essenziale in una sorta di nuova ontologia. Le tele raccolgono i colori caldi e freddi, luminosi e smorzati identici a quelli che l’occhio ha colto.

Il soggetto viene portato all’aperto, sul prato, magari nella calca della folla metropolitana, comunque comparato e compartecipe al paesaggio. I nudi stessi, stagliati contro l’orizzonte, perdono il fascino “pruriginoso” dell’erotismo per una sorta d’imbibizione ebbra di lirismo nella sensualità pulita dei corpi e delle cose.